La Bhagavadgītā e lo Yoga 16 Gennaio 2017 – Posted in: Contributi
Cos’è la Bhagavadgītā, conosciuta anche come ‘Gitā?
La ‘Gītā è un testo, o più precisamente una porzione di un testo ancora più grande. Infatti, nonostante la ‘Gītā sia diffusa e letta come testo a sé, presa come fonte di ispirazione e di studio sia da praticanti Yogi che da ricercatori spirituali in genere, è in realtà collocata nel VI Parvan (libro) del più grande poema epico al mondo: il Mahābhārata. Si ritiene che il Mahābhārata sia stato composto tra il IV sec. a.C. ed il IV sec. d.C. e probabilmente il libro della ‘Gītā fu inserito attorno al III sec. a.C., mentre per altri ne entrò a far parte già dal V sec. a.C.. Gli insegnamenti contenuti nella ‘Gītā sono l’espressione della tradizione religiosa e filosofica dell’umanità, non rappresentano una specifica setta o corrente ma incorporano l’Induismo nel suo complesso e non solo quello, si può infatti facilmente sostenere che i temi trattati da questo antico testo facciano parte di tutte le tradizioni religiose e in generale della perenne ricerca spirituale dell’essere umano, è quindi patrimonio spirituale dell’umanità. Questo importante saggio rientra nel canone ortodosso della religione hindu, infatti forma assieme alle Upaniṣad (testo complementari ai Veda, letteralmente indica il discepolo che siede i piedi del Maestro per ascoltarne gli insegnamenti) e al Brahmasūtra (testo fondante della scuola del Vedānta, scritto dal saggio Bādarāyana-Vyāsa) il cosiddetto triplice canone, o triplice scienza (Prasthānatraya) del Vedānta.
La vicenda
Il testo si apre con una scena di battaglia in atto, come tutti i poemi epici infatti, anche la ‘Gītā, tratta di grandi guerre che segnano il passaggio epocale dell’umanità, può quindi sembrare strano, al primo occhio, capire come mai anche il Mahatma Gandhi, portavoce della Non Violenza, abbia spesso usato questo libro come fonte di ispirazione e come aiuto nel risolvere i quesiti della vita, disse infatti:
“Quando i dubbi mi ossessionano, quando le delusioni mi guardano in faccia, e non vedo uno spiraglio di speranza all’orizzonte, mi rivolgo alla Bhagavadgītā per trovare un verso che mi conforti; e immediatamente nel mezzo del dolore schiacciante inizio a sorridere. Coloro che meditano sulla ‘Gītā riceveranno ogni giorno rinnovata gioia e nuovi concetti.”
Eppure, guardando tra le righe, si potrà ben intendere che questo è possibile. Il primo capitolo si apre proprio con l’immagine del guerriero Arjuna che, seduto sul suo carro, osserva da lontano la scena del Kurukṣetra (il “campo dei Kuru”, ovvero il simbolico campo di battaglia, la lotta umana dell’esperienza quotidiana) e mosso da compassione si ferma e si rifiuta di combattere. Da sempre questa battaglia è stata interpreta come simbolo della condizione umana: da una parte la giustizia rappresentata dai Pandava (i cinque fratelli che avrebbero diritto al trono) e dall’altra barricata i cugini Kaurava, rappresentanti dell’ingiustizia (gli usurpatore del trono). Il Kurukṣetra è il campo di battaglia, ovvero il Mondo, Arjuna rappresenta l’anima umana e il suo carro rappresenta il nostro corpo, mentre il divino Krishna, auriga di Arjuna, rappresenta la nostra guida, colui a cui ci rivolgiamo nei momenti di dubbio, come quello che assale Arjuna in questo momento. I Pandava rappresentano il vero Sé, esiliati dalla loro terra e il cui posto fu preso da Duryodhana, figlio malvagio del re cieco Dhritarashtra. Quest’ultimo rappresenta l’ego centrato su di sé, (e per questo cieco), con le sue passioni e desideri, rappresentati dai suoi cento figli.
Gli insegnamenti
Arjuna non se la sente di combattere, anche se lui è uno kṣatriya, ovvero un guerriero, e decide di abbandonare la battaglia. I suoi dubbi vengono dall’idea di dover combattere non solo contro i nemici ma anche contro i suoi parenti e amici. È a questo punto che comincia il dialogo (che andrà avanti per tutti i 18 capitoli del testo) con Krishna, il quale gli fornisce tutti gli insegnamenti di vita, racchiusi nei versi della ‘Gītā e rappresentati dal cammino dello Yoga.
“Tu hai diritto all’azione, ma in nessun caso ai suoi frutti, non devi compiere l’opera per i frutti che essa ti procura, ma nemmeno devi attaccarti alla non-azione” II, 47
“È preferibile seguire il proprio Svadharma (la legge del Sé, n.d.a.) anche se in modo imperfetto, piuttosto che seguire quello di un altro anche se in modo perfetto, è meglio morire adempiendo il proprio Darma perché quello altrui produce danni.” III, 35
Krishna spinge Arjuna a non abbandonarsi alla non-azione, la quale potrebbe sembrare la scelta migliore, ma invece rappresenterebbe una non crescita personale, una mancata volontà di agire nello svolgersi della vita e delle sue difficoltà, quegli ostacoli che solitamente ci portano i migliori insegnamenti.
Inoltre Krishna insegna ad Arjuna la via dello yoga in tutte le sue sfaccettature: il Dhyana Yoga, ovvero la meditazione, il Bhakti Yoga, la via della devozione, il Karma Yoga, cioè lo Yoga dell’azione. In tutte le vie, che si compenetrano in un’unica visione Yogica della vita, Krishna sottolinea l’importanza di non combattere e non agire per i frutti della propria azione, ma senza aspettative, senza amore o odio, agire per il solo dovere all’azione, e proprio questa mancanza di attaccamento renderà questa guerra giusta.
Tornando a Gandhi possiamo infatti dire che la sua Non-Violenza non si può confondere con una Non-Azione, tutt’altro, è stata una grande violenza, anche fisica, quella che hanno subito lui e i suoi discepoli.
“Avendo abolito il contatto con gli oggetti esteriori e concentrato la visione tra le sopracciglia, avendo reso uguale l’inspiro e l’espiro, avendo dominato i sensi, la mente e l’intelligenza, il saggio che si consacra alla liberazione e che ha respinto il desiderio, la paura e la collera, è libero per sempre.” V, 27-28